No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20080113

la graine et le mulet


Cous cous - di Abdellatif Kechiche 2008


Giudizio sintetico: si può perdere


Slimane è un immigrato maghrebino di 61 anni. Lavora a Sète, città portuale della Francia, da molti anni, buona parte dei quali naturalmente senza contributi, sempre nei cantieri navali. Le continue riduzioni di personale, le nuove ondate di immigrazione e l'avidità crescente dei padroni fanno in modo che si licenzi, a pochi anni dalla pensione, non accettando il part-time. Slimane, in pratica, ha due famiglie. Una, numerosissima, avuta dalla prima moglie, con figli e nipoti. L'altra con la compagna più recente, proprietaria di un piccolo hotel/bar/ristorante; fa parte di questa "seconda" famiglia, la figlia della compagna, Rym, alla quale Slimane vuol bene come se fosse sua.

La depressione è vicina, per Slimane. L'unica via d'uscita è reinventarsi per mezzo di un lavoro. L'idea è quella di risistemare un vecchio barcone, che Slimane riesce a comprare con la liquidazione, insieme agli amici e alla famiglia, e poi adattarlo a ristorante galleggiante: specialità il cous cous di pesce, che la prima moglie cucina divinamente.


Una delusione cocente mi ha assalito all'uscita della sala dove ho assistito a questo film. Le aspettative erano massime: avevo amato il precedente di Kechiche, La schivata, in molti addetti ai lavori lo presentavano come vincitore morale del Leone d'Oro di Venezia, alla giovane protagonista Hafsia Herzi (Rym) era andato il Premio Mastroianni (ne parlammo qui). Il soggetto è semplice ma di quelli che possono affascinare neorealisticamente, attuale, toccante: immigrazione integrata, disoccupazione improvvisa in età avanzata, famiglia allargata, rivincita per mezzo della semplicità e della testardaggine. Le premesse altrettanto buone: sembrava di stare dentro ad un film di Guédiguian (La ville est tranquille, A l'attaque soprattutto), gli attori (quasi tutti non professionisti, oppure alcuni legatissimi a Kechiche) spontanei e con facce attinenti.

E invece, poco a poco, ecco che escono i difetti, su tutti la verbosità insopportabile di alcune protagoniste, tirate piagnucolose di diversi minuti che evidentemente dovrebbero acuire la sensazione di cinema-verità, ma al contrario hanno un effetto di completa astrazione dalla storia. Vorresti solo tappar loro la bocca, e vedere il seguito della storia. Se si conta che il film è piuttosto lungo, qualche taglio avrebbe senz'altro giovato e lo avrebbe reso più snello e meno ammorbante.

La camera a mano è spesso disturbante. Non si capisce poi perchè in alcuni dialoghi, Kechiche parta appunto con la camera a mano, passando da un soggetto all'altro (creando una sensazione di vertigine disturbante), per poi improvvisamente passare al campo e al controcampo sempre nello stesso dialogo.

La storia sarebbe semplice e alla fine risulterebbe anche simpatica. Ma il finale appare come un piano in più che la struttura regge a malapena. Troppi avvenimenti dopo troppi dialoghi, spesso inutili. E ha un bel dire Nepoti su Repubblica che il montaggio alternato delle due scene finali (la danza del ventre di Rym, che salva la situazione, e Slimane che corre dietro ai piccoli ladri del suo motorino) sottolineano l'impossibile storia d'amore tra Slimane e Rym: per permettergli di leggere questo sottotesto, il regista doveva stancare meno lo spettatore!


Scherzi a parte, il film di Kechiche ha anche buone cose, come una fotografia adatta alla descrizione di una realtà di mare, genuina e provinciale, i temi (citati prima), che però rimangono in definitiva abbozzati e irrisolti, qualche faccia (quella del protagonista, Habib Boufares, che però se fosse riuscito ad accennare qualche sorriso avrebbe reso più credibile Slimane) e qualche prestazione (quella di Hafsia Herzi, premiata a Venezia come detto prima, che però ci aspettavamo molto più intensa, e invece si risolve con la scena della danza del ventre, bella, ma c'è poco altro in tutto il film), ma la sceneggiatura, in mezzo a tutti i dialoghi, è data per dispersa molto presto, a dispetto della durata del film. Ti ritrovi ad aspettare il cambio di passo, ma poco a poco ti accorgi che non ci sarà. Ne La schivata c'era la tenerezza dei piccoli protagonisti, e la scoperta di un mondo portato sullo schermo con difficoltà dai più, qui invece i temi sono in fondo conosciuti, e uno script un po' più intrigante avrebbe aiutato.


Gridare al capolavoro mi è parso (e come a me, a molti spettatori in sala) decisamente esagerato. Visto che la noia regna sovrana per gran parte del film, ci si chiede quale film abbiano visto le grandi firme della critica cinematografica.

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